Faccio una premessa: nutro un immenso rispetto per le Opere d’Arte. Che si tratti di reperti antichissimi o murales di periferia, ritengo che ogni forma rappresentativa dell’umana creatività meriti di essere quantomeno messa nelle condizioni di raccontarsi.
Il problema, però, è che quando si rinviene un reperto e si bloccano, anche per anni, i lavori per i quali si stava procedendo, poi non sempre si riesce – vuoi perché mancano i soldi, vuoi perché cambiano le superiori volontà – a restituirlo in una forma che dia un senso alla sua “rivitalizzazioneâ€; e, talvolta, succede che da una lunga gestazione nascano altre rovine.
Mi spiego. Qualche anno fa ho acquistato una casa su carta; successivamente, durante i lavori di scavo, sono emersi dei reperti che hanno fatto presumere – a giusta ragione – che ve ne fossero degli altri …degli altri… ed altri ancora. Da quel momento, si susseguirono: un opportuno, auspicabilissimo intervento della Sovrintendenza; la modifica alle modalità di scavo; la richiesta di ulteriori ed ulteriori ed ulteriori accertamenti, per verificare possibili “fecondità †del suolo … e così la casa ci è stata consegnata con ben due anni di ritardo!
Va bene, va benissimo: in nome dell’Arte, questo ed altro. Ma se per i primi mesi si sono viste lì a lavoro, operose ed instancabili, munite di pennellino e bisturi, qualificatissime manine, tutte intente a scavare metri di stratificazioni pregresse, e si inseguivano idee su strutture musearie da realizzare in loco al fine di rendere ben visibili i pregiatissimi reperti rinvenuti, ora si può notare un triste telo verde e qualche pugno di terra, quasi a confessare l’impossibilità di procedere per la solita mancanza di fondi.
Poco più in là di casa mia, c’era e c’è ancora un campo di grano con un recinto sconnesso, che una notte decisi di violare per esplorare cosa nascondesse. Ebbene, non ci crederete, ma nascosta tra quelle spighe d’oro, alte quasi quanto me, c’era …e c’è… ancora abbandonata a se stessa, una favolosa, e ripeto “favolosaâ€, villa romana.
John Ruskin, un critico d’arte inglese di fine Ottocento, famoso per la sua concezione del “restauro romanticoâ€, riteneva che l’opera d’arte, a compimento di un suo personale percorso, aveva anche diritto a lasciarsi morire; e sosteneva anche che la Natura, attraverso i rovi che nascevano attorno alle rovine fino ad avvolgerle, era quasi come se tentasse di riappropriarsene e rifare sua quella pietra.
Proprio come stavano facendo quelle spighe di grano d’oro che, sotto il bagliore della luna, cercavano quasi di proteggere quella splendida villa da un tentativo malriuscito di restituirla agli occhi del mondo, per poi lasciarla abbandonata in un contesto troppo evoluto e distratto per consentirle ancora di sentirsi ….a proprio agio.
Allora io mi chiedo: se la Sovrintendenza è consapevole del fatto (…lo siamo tutti…) che non ci sono fondi per portare a termine delle opere di restituzione dei reperti, quando capita di rinvenirne non è più saggio lasciarli lì dove sono e, magari, mettersi un promemoria per quando arriveranno tempi migliori e si avrà la quasi-certezza che li si potranno portare totalmente alla luce, così come meritano?!
Vittoria