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Il processo Fiat frutto di una politica sorda al cambiamento del mondo del lavoro

In un precedente articolo pubblicato nel mese di settembre 2010 a proposito della vicenda degli operai FIAT licenziati a Melfi, affermai che l’azienda aveva lanciato un forte segnale politico circa la necessità di un non più rinviabile cambiamento nel sistema delle relazioni industriali.
Non bisognava essere dei geni per prevedere quello che dopo Melfi è successo a Pomigliano e poi a Mirafiori ma la politica non ha capito, o non ha voluto capire, il cambiamento in atto che è andato avanti per la sua strada lasciando indietro la politica e le sue paludi putride dando inizio ad una nuova epoca nei rapporti all’interno dell’impresa.
Una nuova epoca fondata sul senso di responsabilità e, soprattutto, sulla consapevolezza che l’impresa è il vero patrimonio da salvaguardare, un patrimonio comune all’imprenditore ed ai lavoratori, perché se non c’è impresa non ci sono imprenditori ma neanche lavoratori con tutto ciò che ne consegue in termini di aumento della povertà e di arretramento della società.
La vittoria del “SI” al referendum sull’accordo di Mirafiori va letta quindi in questo senso: non come una sconfitta dei diritti dei lavoratori ma come la vittoria del diritto al lavoro che la nostra Costituzione tutela e sul quale fonda tutto l’ordinamento sociale del Paese.
Un risultato che consente all’azienda di fare investimenti nel nostro Paese e di non portare via le fabbriche in altre nazioni, così affermando che il modello di sviluppo sul quale investire è quello occidentale fatto dai diritti e dalle garanzie in favore dei lavoratori, ma anche quello dei doveri e delle responsabilità, due parole ormai da troppo tempo in disuso in Italia.
La vittoria del “SI” ha sconfitto nei fatti la logica del trasferimento delle fabbriche italiane in paesi dove le imprese sono più competitive solo perché i lavoratori sono sfruttati al massimo, sotto pagati, e senza nessuna garanzia in termini di assistenza, previdenza e sicurezza ed è singolare che la FIOM, il sindacato più vicino alla sinistra che dovrebbe avere a cuore la tutela dei lavoratori, non abbia colto questo importantissimo aspetto.
Ora la palla ritorna alla politica che deve essere capace a tutti i livelli, nazionale e locale, di rendere il nostro Paese appetibile agli investimenti stranieri creando un sistema flessibile con la riduzione al minimo del carico burocratico, un sistema che investa sulle infrastrutture che rendano più semplici gli spostamenti di persone e merci, un sistema insomma che restituisca ai cittadini ed alle imprese in termini di servizi il carico fiscale che grava su di loro.
Un sistema che solo in questi termini può garantire lo sviluppo e l’occupazione, specialmente per i giovani, in una nuova e moderna visione di cooperazione sociale e non di sterile contrapposizione.
Paolo Andrea Taviano
Magistrato

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