Il restauro dell’arazzo di Gerace, un capolavoro fiammingo alla Galleria Nazionale di Cosenza
21 Settembre 2011Preziosi oggetti d’arredo prodotti in gran parte tra la Francia e le Fiandre, gli arazzi si diffondono in tutta Europa a partire dal Medioevo, raggiungendo l’apice della fortuna in età moderna, tra il XVI e il XVIII secolo. Appesi alle pareti o stesi sul pavimento, impreziosivano gli ambienti di rappresentanza delle residenze nobiliari, offrendo molteplici vantaggi. Se da un lato, infatti, consentivano un migliore isolamento termico, proteggendo dal freddo e dall’umidità , dall’altro potevano essere facilmente sostituiti offrendo soggetti adatti ad ogni occasione. A differenza degli affreschi, inoltre, potevano essere facilmente trasportati da una residenza all’altra.
Proveniente dal Palazzo Vescovile, l’arazzo di Gerace costituisce, per rarità e pregio, una delle massime glorie del patrimonio storico-artistico calabrese. Capolavoro dell’arte tessile, testimonia non solo l’elevato grado di raffinatezza raggiunto dalla scuola fiamminga nella seconda metà del XVII secolo, ma anche la complessità dei rapporti culturali intrattenuti dalla nobiltà e dal clero calabrese.
La lettera “B†visibile al centro della bordura inferiore, entro la sottile cornice blu, certifica la provenienza dagli opifici di Bruxelles-Brabant, mentre il nome dell’autore, Jan Leyniers (1630-1686), leggibile nei pressi dell’angolo inferiore destro, ne riconduce la manifattura ad una nota famiglia di arazzieri e tintori di lane attivi nelle Fiandre dalla prima metà del XVI secolo. Dello stesso autore si conservano, nel Nelson-Atkins Museum di Kansas City, gli arazzi narranti il Mito di Fetonte e quelli dedicati a Le Arti di proprietà del gruppo bancario spagnolo Santander. Al Leynies, inoltre, sono attribuiti gli arazzi con le Storie di Alessandro Magno del Collegio Alberoni di Piacenza.
L’arazzo rappresenta un’affollata scena venatoria, incorniciata da un abbondante festone in cui s’intrecciano anticaglie ed elementi floreali e zoomorfi. Entro un fitto bosco illuminato da un cielo terso sta per avere inizio la battuta di caccia. Al centro, in primo piano, due giovani s’incontrano e si accingono ad un abbraccio amichevole. Poco dietro è un’imponente figura femminile, un’eroina o una divinità . Attorno a loro un gran numero di figure secondarie, alcuni alle prese con i cani, altri in groppa ai loro cavalli intenti a suonare buccine finemente cesellate.
Ancora incerta è l’identificazione del soggetto. L’ipotesi più accreditata tra quelle finora proposte è che l’arazzo costituisca il singolo elemento – ad oggi l’unico noto – di un ciclo più ampio riferito al mito di Meleagro e Atalanta. A conferma di tale supposizione interviene la presenza dei due leoni che rievocano la drammatica fine di Atalanta e Ippomane, testimoniando l’intenzione di legare tra loro, in un sottile gioco di rimandi, le varie scene del mito. Poco credibili, tuttavia, risultano alcune identificazioni avanzate in passato che riconosce nella scena centrale l’incontro tra Meleagro ed Eneo, oppure tra lo stesso eroe greco e l’amata Atalanta, tema già trattato da Leyniers nell’arazzo custodito presso l’Art Institute di Chicago.
La prima ipotesi non è credibile in quanto Eneo, padre di Meleagro, è sempre rappresentato, in rispetto del dato anagrafico, con le fattezze del saggio; la seconda è confutata dalle sembianze chiaramente maschili di entrambi i protagonisti. In un’ultima analisi, volendo rimanere nell’ambito dello stesso mito, si è portati a riconoscere nell’incontro centrale quello tra Meleagro e uno degli eroi accorsi per affiancarlo nella caccia al cinghiale calidonio.
Ignorato dagli studi, come dimostrano i limitatissimi riferimenti bibliografici, dell’arazzo non si conoscono i cartoni preparatori, sicuramente utilizzati. Tuttavia la lettura stilistica non può non rilevare evidenti tangenze con la maniera di Charles Le Brun, artista francese che, insieme a Pieter Paul Rubens e al suo principale allievo, Jacob Jordaens, in più di un’occasione prestarono le loro composizioni alla riproduzione tessile dei Leyniers.
Note sul restauro
Il manufatto si estende in senso orizzontale per un’altezza di cm 380 ed una lunghezza di cm 564. Raffinata la tecnica di realizzazione e la scelta dei materiali, filati dalle policromie morbide e ricchi di sfumature. Gli orditi sono in lana non tinta color avorio, ben ritorta e di scarso spessore rispetto ai fili di trama policromi in lana o in seta.
La lettura dell’immagine si presentava integra nonostante lo stato di conservazione materico del manufatto fosse estremamente compromesso. Le cause del degrado sono da imputare ad alcuni materiali costitutivi, in particolare i filati serici, e alle modifiche intercorse negli anni sull’arazzo per i restauri subiti e i sistemi di esposizione utilizzati.
Uno strato di sporco offuscava la superficie, in particolare sul retro a causa della tecnica di manifattura che prevede una gran quantità di fili ‘volanti’ che raccolgono e trattengono le impurità ; cospicue le macchie corrosive di ruggine e numerosi i decadimenti dei filati che interessavano prevalentemente le zone tessute in seta.
Evidenti le deformazioni del tessuto, in gran parte corrispondenti alle zone interessate da rifacimenti, integrazioni o precedenti restauri; numerose le fessurazioni coincidenti con i limiti di unione delle bande di differente policromia e le cadute di fili di trama, in particolare quelli in colore scuro e in seta. La fodera era appesantita ed irrigidita da uno spesso strato di sporco.
Degradate le parti originali in seta per la fragilità costitutiva del filato e per gli interventi effettuati negli anni. I danni irreversibili subiti dalla fibra, a livello fisico e chimico, hanno reso il tessuto particolarmente friabile e di rischiosa manipolazione.
La bordura, in colore blu, è stata ritessuta in un precedente intervento di restauro: sul lato inferiore la sigla B-B con lo scudo rosso posto al centro fra le due lettere, che identifica il luogo di produzione, è frutto di un rifacimento, mentre la firma dell’arazziere, Jan Leyniers, posta sul lato destro del bordo inferiore, è originaria ed è stata reinserita tramite riagganciatura dei fili di ordito e ancoraggio dei fili di trama. Il sistema di esposizione, a manicotti distaccati, aveva causato tensionamenti e deformazioni del tessuto, soprattutto sul bordo superiore.
Lo studio dell’arazzo è stato condotto mediante la diagnostica fisica multispettrale, secondo una metodologia che approccia il manufatto come si trattasse di un dipinto.
Gli arazzi, difatti sono costituiti da tessuto (al pari della tela) e da coloranti (i pigmenti), che possono essere studiati mediante l’uso di radiazioni UV (ultravioletta) e IR (infrarossa).
Le analisi effettuate sono state: Fluorescenza indotta da UV (UV) filtrato, Infrarosso Falso Colore (IRFC),micro e macro fotografie. La fluorescenza indotta da UV ha consentito di individuare i filati utilizzati e di rilevare le tracce di degrado e di precedenti restauri. L’infrarosso falso colore, tecnica usualmente utilizzata per lo studio dei pigmenti, ha reso possibile l’individuazione di zone apparentemente identiche per filato e per gamma cromatica, ma diverse in composizione chimica e non attribuibili a interventi di restauro.
Indagini diagnostiche a cura del Laboratorio di Diagnostica SBSAE Calabria e di Valentina Cosco, diagnosta.
Il restauro conservativo finalizzato al recupero materico dell’arazzo è consistito in:
– distacco temporaneo della fodera e microaspirazione delle impurità depositate sul tessuto con apparecchiature a regolazione variabile per consentire il recupero delle scorie;
– rimozione di parte dei sostegni tessili, applicati in precedenti restauri, che arrecavano al manufatto deformazioni e non idonei tensionamenti;
– smacchiatura tramite tavola aspirante con soluzioni di acido citrico, solfato di ammonio e acqua demineralizzata e accurata risciacquatura delle zone trattate al fine di eliminare i residui della corrosione e dei prodotti utilizzati nei precedenti restauri;
– pulitura tramite vaporizzazione di acqua demineralizzata e successivo tamponamento con panni in ovatta per la rimozione dell’acidità determinata dall’invecchiamento e dai restauri subiti;
– asciugatura e rimessa in forma tramite riposizionamento delle zone o dei fasci di filati effettuato manualmente, a tessuto ancora bagnato, con l’ausilio di pesi in vetro e l’utilizzo di fogli di carta assorbente;
– consolidamento delle zone fragili con applicazione di un tessuto di sostegno in garza di cotone, lavato in soluzione acquosa addizionata con deboli tensioattivi non ionici, impregnato di resina e applicato mediante punti di cucitura a punto posato, punto avanti e festone;
– reintegrazione delle piccole lacune tramite ritessitura con filati in cotone;
– rifoderatura con l’utilizzo del tessuto originario e applicazione a punto festone di banda in velcro lungo tutta la larghezza del tessuto atta a consentire una idonea esposizione del manufatto.
Restauro a cura del Laboratorio di restauro tessile La trama e l’ordito di Simonetta Portalupi con la direzione scientifica di Nella Mari, storico dell’arte direttore coordinatore SBSAE Calabria.