Da Giovanni D’Agata riceviamo e pubblichiamo:
Dire alla moglie, “ti ammazzo” fa scattare il reato di minaccia anche se non c’è l’intenzione di passare ai fatti. È il principio stabilito dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 46542 del 16 dicembre 2011, ha reso definitiva la condanna nei confronti di un 51enne di Ostia che aveva minacciato la moglie senza passare poi alle vie di fatto. Gli ermellini di fatto, hanno confermato la condanna inflitta dal giudice di pace al ricorrente, accusato dalla moglie di percosse e minacce gravi, anche se la coppia era in via di separazione.
Valida la testimonianza della donna anche se parte civile. Inutilmente l’uomo si era lamentato del fatto che i giudici avessero preso per buona la testimonianza della sua ex che si era costituita parte civile contro di lui quando erano in fase di separazione e dunque in “conflitto di interesse”. La Corte di cassazione coglie l’occasione per ricordare che le dichiarazioni della persona offesa, che si costituisce parte nel processo, sono escluse soltanto nel rito civile mentre sono ammesse in quello penale. Il processo penale ha, infatti, lo scopo di accertare la colpevolezza dell’imputato, un interesse pubblicistico che non può cedere il passo o essere condizionato da interessi privati, come il risarcimento.
Secondo Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, in particolare la quinta sezione penale ha voluto sottolineare quanto all’espressione usata che «la sua rilevanza penale, a norma dell’art. 612 c.p., è determinata dalla configurazione della minaccia come reato di pericolo per la sua integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso, bastando che il male prospettato possa incutere timore nel destinatario, menomendone potenzialmente, secondo un criterio di medianità riecheggiante le reazioni della donna e dell’uomo comune, la sfera di libertà morale».