Da Giovanni D’Agata riceviamo e pubblichiamo:
È da tempo che la giurisprudenza ha dimostrato con le sue decisioni come siano mutati i tempi anche per ciò che concerne la disciplina scolastica ed il comportamento che devono tenere gli insegnanti in materia di educazione e disciplina degli studenti. È lontanissima l’epoca in cui si tollerava e forse anche approvavano quei maestri che utilizzavano la verga o facevano scrivere sulla lavagna all’alunno somaro o ancor peggio lo facevano piangere per le ginocchia emaciate per essere state poggiate sui ceci dopo che aveva fatto qualche mascalzonata. Erano tempi diversi, ma anche allora si poteva comprendere come questi comportamenti potessero essere forieri di danni psichici ai futuri uomini e donne. Come detto, però nel corso degli anni sono mutate le modalità di esercizio del potere disciplinare ed educativo così come di pari passo la giurisprudenza ha sanzionato tutti quei comportamenti senz’altro eccessivi di quegli insegnanti che proprio non hanno voluto o che ancora non vogliono comprendere che dai loro comportamenti potessero derivare conseguenze pregiudizievoli per i propri alunni.
A tal proposito Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Dirittiâ€, segnala un’importante sentenza della Suprema Corte che ha emanato un verdetto di condanna per il reato di abuso del mezzo di correzione nei confronti della maestra che obbligò un alunno vivace a scrivere cento volte «sono un deficiente». La sesta sezione penale della Cassazione penale con la sentenza 34492 del 10 settembre 2012 ha ulteriormente chiarito come il comportamento umiliante e palesemente vessatorio dell’insegnante può essere causa di disturbi psico-fisici al giovane. Nel caso di specie, la decisione che ha confermato quella della Corte d’appello di Palermo ha stabilito la colpevolezza di un’insegnante di una scuola media statale a seguito dell’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina in danno di uno scolaro di undici anni, cui era stato ordinato di scrivere per cento volte la frase umiliante e per avere adoperato nei suoi confronti un comportamento palesemente vessatorio, rivolgendogli espressioni che ne mortificavano la dignità , rimproverandolo e minacciandolo di sottrarlo alla tutela dei genitori, così determinando un disagio psicologico per il quale fu necessario sottoporlo a cure mediche e a un percorso di psicoterapia.
Nel motivare la sentenza i giudici del Palazzaccio hanno affermato testualmente che «la fattispecie prevista dall’articolo 571 Cp (abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), alla luce della Costituzione, del diritto di famiglia (introdotto dalla legge n. 151/1975), della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge n. 176/1991), a cominciare dalla reinterpretazione del termine “correzione†nel senso di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo in cui è coinvolto un bambino (per tale dovendo intendersi un soggetto in evoluzione, ossia una persona sino all’età di 18 anni, secondo la definizione della predetta Convenzione Onu)». E continuando: «Non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, distortamente finalizzata a scopi ritenuti educativi e ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità , sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà , utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono».
Per tali motivi, nella fattispecie l’abuso del mezzo di correzione è da considerarsi come abuso di un potere di cui alcuni soggetti sono titolari nell’ambito di determinati rapporti (di educazione, istruzione, cura, custodia e così via), potere che deve essere esercitato nell’interesse altrui, ossia di coloro che possono diventare soggetti passivi della condotta. Pertanto, secondo gli ermellini – che hanno deciso nel merito la vicenda rideterminando la pena in quindici giorni di reclusione, dopo aver escluso un’aggravante – costituisce abuso punibile a norma dell’articolo 571 del codice penale anche la condotta dolosa che umilia, svaluta, denigra e violenta psicologicamente un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche se è compiuta con soggettiva intenzione educativa o di disciplina.