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Contratti precari, il giudice del lavoro converte il Cocopro in rapporto a tempo indeterminato se il contratto impone standard alla prestazione giornaliera

Da Giovanni D’Agata riceviamo e pubblichiamo:

Dovrebbe essere per definizione lavoro autonomo finalizzato ad un progetto che dovrebbe essere gestito in tutta indipendenza dal collaboratore, il cosiddetto cocopro. Ma è d’obbligo, nel Nostro Paese, usare il condizionale in materia, perché troppe volte, tali rapporti di lavoro o simili, mascherano in realtà l’esistenza di una vera e propria dipendenza a titolo subordinato.

Se, infatti, nel contratto sottoscritto con l’impresa datrice di lavoro non sussiste un vero e proprio programma da portare a termine al di fuori della semplice indicazione della mansioni da svolgere, il rapporto ha in realtà natura subordinata ed è inevitabile la conversione del contratto a tempo indeterminato, laddove in particolare, il contratto pone comunque a carico del (presunto) autonomo standard minimi di “produttività” giornaliera. Lo stabilisce una significativa sentenza pubblicata il 25 giugno dalla Cassazione e che per Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, vale la pena di portare all’attenzione per incentivare tutti coloro, e sono purtroppo ancora tanti, che si trovano nelle medesime condizioni ad impugnare questi contratti capestro per ottenere giustizia e vedersi riconosciuto il posto di lavoro fisso.

La decisione pubblicata con il numero 15922/13 dalla sezione lavoro della Suprema Corte ha, infatti, rigettato il ricorso dell’azienda che aveva impugnato la decisione della Corte d’appello che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento orale con la relativa e necessaria conversione del cocopro in tempo determinato e stabilendo un risarcimento danni pari a quattro mensilità e corresponsione delle retribuzioni maturate nelle more, detratto quanto già percepito nel periodo di assenza dal lavoro.

I giudici di merito, avevano ritenuto dimostrato il vincolo di subordinazione del lavoratore già soltanto in base ai compiti e agli obblighi a posti carico dell’asserito collaboratore a seguito della sottoscrizione del contratto che di fatto inchioda l’impresa; nel caso di specie, infatti, al prestatore d’opera veniva imposto di vendere ogni giorno almeno settanta cartoni del prodotto e visitare almeno diciotto clienti, facendone un dipendente vero e proprio e non un semplice collaboratore. Né può ritenersi nullo il ricorso del lavoratore che punta alla conversione del rapporto a tempo indeterminato soltanto perché punta unicamente sulle circostanze che emergono dal contratto firmato con l’azienda.

Ciò che emerge, in particolare, è che il datore si fa autogol con il contratto che ha sottoscritto, laddove il giudice del merito fornisce una adeguata motivazione secondo cui l’attività pattuita non è inquadrabile nello schema legislativo del lavoro a progetto, di cui all’articolo 61 del decreto legislativo 276/03, dove il programma da svolgere deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale ma la gestione spetta al collaboratore.

Nella fattispecie erano stati stabiliti standard minimi per diciotto-diciannove giornate al mese con l’obbligo di rendiconto dei dati di vendita a cadenza quotidiana.

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