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A caccia dei bunker della Camorra. La lotta all’organizzazione passa anche nell’abbattimento dei suoi simboli del potere

A caccia dell’estremo nascondiglio dei camorristi. A Casal di Principe la lotta alla Camorra passa anche attraverso l’abbattimento delle false leggende che circolano intorno alla latitanza dei boss. Invincibili, imprendibili e nababbi: è così che la gente soggetta all’influenza camorristica ritiene i latitanti. “In realtà – dichiara il capitano Michele Centola, 32 anni, comandante della compagnia carabinieri di Casal di Principe (Nella Foto) – le cose stanno diversamente e chi sceglie quella vita, per evitare l’arresto o gli agguati dei clan rivali, finisce per vivere come un topo”. capitano centola il punto A Casal di Principe, patria del clan dei Casalesi, in un luogo in cui la popolazione è equamente divisa tra camorristi, parenti di camorristi e gente per bene, la guerra tra lo Stato e la camorra è quotidiana e abbattere l’immagine di virilità dei boss è fondamentale. “E’ gente che, – spiega Centola – pur di non perdere il controllo del territorio, emigrando all’estero, sfida le ricerche delle forze dell’ordine nascondendosi in luoghi angusti, senza finestre, interrati, peggiori della cella di una galera. Se si dovessero allontanare, i loro stessi sottoposti, tenterebbero di prenderne il posto e, per questo, scelgono il bunker”. E’ il segreto meglio conservato dei camorristi. Difficilmente se ne fanno ad personam, ma il clan li costruisce per utilizzarli solo in caso di bisogno. Sono strutture ingegneristicamente evolute, realizzate da una manodopera specializzata ben pagata dalla malavita. Sono carpentieri, idraulici, elettricisti e, ovviamente progettisti, capaci di maneggiare congegni sofisticati e molto costosi. “Il bunker non si realizza quasi mai in maniera improvvisata. Solitamente nasce insieme alla casa che lo dovrà nascondere. Una casa che sarà abitata da una famiglia di insospettibili. Persone che non hanno mai avuto problemi con la giustizia – racconta l’ufficiale dei carabinieri – E’ possibile ipotizzare che il clan finanzi anche la costruzione della casa che celerà il segreto, in modo da creare con la famiglia, un legame di convenienza che garantirà il segreto. Quando ce ne sarà bisogno, la famiglia farà parte del nascondiglio. Abitando la casa, infatti, saranno giustificati i consumi energetici ed idrici. Se la casa fosse disabitata, inoltre, servirebbe qualcuno che dovrebbe provvedere a portare alimenti al latitante ingenerando ulteriori sospetti”. Una vita tutt’altro che facile, comoda e bella quello del latitante costretto a rimanere celato nella struttura come un vero prigioniero, senza mettere mai un piede fuori ma nonostante ciò, agli occhi delle persone vicine al clan, acquisisce sempre più potere. “Più la latitanza è lunga e più si irrobustisce l’immagine del boss. Se non viene catturato, nell’immaginario collettivo, lo si vede forte per due aspetti. Innanzitutto perché nessuno del suo gruppo lo tradisce e quindi conserva la forza di vendicare eventuali disobbedienze. All’esterno, invece, il suo potere accresce perche si radica l’idea che possa avere coperture politiche”.
Le leggende invece, create ad arte dai suoi scagnozzi, servono a far credere che, nonostante tutti lo cercano, il latitante esce indisturbato sfidando carabinieri e polizia. “In realtà, – dichiara Centola – il malvivente non esce dal suo nascondiglio neanche per dare l’estremo saluto ad un figlio deceduto”. Il bunker, quindi, nell’ambiente rappresenta un simbolo di forza e di potere e trovarne uno, anche se disabitato, serve a colpire l’immagine del clan. “E’ difficilissimo individuarli anche perché, nonostante il gran numero di collaboratori di giustizia, in pochissimi ne conoscono l’ubicazione”.

Il capitano Centola comanda una compagnia di carabinieri specializzati nello stanare i latitanti e suo principale collaboratore è il tenente Salvatore De Falco, comandante del nucleo operativo, che vanta un’esperienza decennale alla “Catturandi” di Napoli. “Ci sono due tipologie di bunker – illustra Centola – quello utilizzato come riparo temporaneo e quello di tipo residenziale in cui il latitante ci vive 24 ore su 24 per tutta la durata della sua latitanza. L’ultimo bunker ritrovato era un ricovero temporaneo che ha riservato non poche sorprese. Siamo arrivati ad una villetta che secondo le indagini nascondeva un segreto. La casa era abitata da una famiglia di insospettabili ed era dotata di impianto di videosorveglianza che permetteva una perfetta visione del perimetro interno alla recinzione. In questa maniera se le forze di polizia avessero fatto irruzione, dal di dentro se ne sarebbero accorti per tempo. Arrivare al bunker non è stato semplice. Abbiamo cominciato a cercare dalla cantina e da alcuni fori che abbiamo fatto nei muri abbiamo scoperto intercapedini e altre pareti in cemento che non avevano nulla a che vedere con la casa. Dopo ulteriori ricerche siamo arrivati ad una botola sul pavimento della cucina, nascosta perfettamente dal colore e dalle fughe delle mattonelle. Il pesante tappo in cemento spesso oltre 50 centimetri, veniva aperto da un congegno elettrico telecomandato e sollevato in pochissimi secondi grazie a pistoni pneumatici. Una volta dentro si apriva un locale di circa 8-10 metri quadrati munito di impianto di areazione e luce dove il latitante sarebbe rimasto per il tempo di durata della perquisizione”. Le sorprese sono arrivate quando, continuando le ricerche, è spuntato un secondo nascondiglio. “Un’altra botola dava accesso ad un locale, questo più angusto, in cui il camorrista avrebbe trovato rifugio con bombole di ossigeno nel caso in cui il primo bunker fosse stato scoperto”.
Quella struttura, secondo le indagini, era nelle disponibilità del clan Schiavone e il capofamiglia che lo nascondeva, è stato denunciato per concorso esterno in associazione mafiosa. Un colpo duro per l’immagine del clan Schiavone già decapitato del suo reggente e, in larga parte, disarmato. Gli stessi militari, infatti, hanno arrestato lo scorso gennaio il latitante Carmine Schiavone, figlio di Francesco, noto come Sandokan. Nello stesso periodo hanno individuato e sequestrato, nascosto in una campagna, un vero arsenale composto anche da armi da guerra. Risultati che hanno dato coraggio alle vittime della camorra. “Nel corso del 2012 – dichiara l’ufficiale dei carabinieri – a Casal Di Principe non ci sono state denunce per estorsione; dopo l’arresto a gennaio di quest’anno, del latitante Schiavone sono arrivate decine di denunce, in larga parte di imprenditori edili che, di fronte all’arresto del nuovo boss, e stretti anche dalla crisi, hanno deciso di farsi avanti e dire basta”. Ma anche tra la gente comune, anche se in maniera anonima, c’è stato chi ha voluto complimentarsi con le forze dell’ordine e ringraziarle per il lavoro che svolgono. “Dopo l’arresto del boss – conclude Centola – Abbiamo trovato fuori la caserma, una cartello con cui qualcuno l’anonimo ci faceva i complimenti e ci ringraziava. Quel cartello lo conserviamo gelosamente all’ingresso dei nostri uffici e ci da ulteriori stimoli per svolgere il nostro lavoro con sempre più entusiasmo”.
Ermanno Amedei

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