Dall’A.S.La. Cobas riceviamo e pubblichiamo.
Il capitolo italiano FIAT rischia di essere la parte più complicata nonché delicata dell’intera fusione.
Il futuro è fatto di nuove reperibilità di fondi (c’è chi parla di nuovi bond già pronti) e rinnovati piani industriali (che sia la volta buona per lo stabilimento di Piedimonte San Germano?).
Entro Aprile sarà lo stesso Marchionne diraderà la fitta nebbia che cela il futuro (in primis europeo) della Nuova Fiat: progetti, investimenti e nuovi modelli di autovetture da porre in essere nei prossimi cinque anni, il primo lustro da “produttore globaleâ€.
Eppure permane un certo ‘timore’ . Una inquietudine che risponde ad un concetto ben preciso: “delocalizzazioneâ€. In molti si chiedono, infatti, se la globalizzazione della Fiat, il suo sposare gli States ed il contestuale sganciarsi parzialmente dal contesto europeo nonché italiano, sia effettivamente l’inizio di una nuova era per gli stabilimenti del Bel Paese o, più semplicemente, l’inizio della fine. Diventare giocatori globali non significa, unicamente, giocare sul doppio fronte Italia (Europa) – Usa (America).
Il Gruppo Volksvwagen ora diretto ‘concorrente’ globale di Fiat-Chrysler, è stato precursore dello sbarco in Asia: l’eldorado dell’automobile, infatti, viene da sempre più analisti localizzata ad est dell’Europa. La debolezza della domanda europea (e dell’Italia, in cui la Fiat ha grosso modo mantenuto il market share ma ha visto crollare i volumi) di certo non aiuta. Il Gruppo Vw ha già lanciato, ormai da quasi un anno, un piano industriale da quasi 10 miliardi di euro in quel di Pechino. Sorge allora spontanea una domanda: la Fiat-Chrysler resterà ora a guardare, scegliendo di non puntare anch’essa sulla Cina? Difficile dirlo nell’immediato. Una cosa, tuttavia, è certa: qualora il nuovo player mondiale decidesse di puntare forte sull’Asia (e la Cina in particolare), quanto di quelle “ulteriori [nuove] risorse finanziarie†prenderebbe la via dell’Italia? La domanda, ad oggi, ci sembra del tutto lecita.
Un tema che riguarda più da vicino gli ope¬rai e lo stabilimento di Cassino. Fiat con¬ti¬nuerà a inve¬stire a Cassino e nel resto d’Italia, o via via si disim¬pe¬gnerà sem¬pre di più?
Non c’è alcun dubbio che questo passaggio segni la definitiva americanizzazione di Fiat. A dirlo non è solo la querelle sulla sede legale e simili. A dirlo sono i numeri. Per sostenere il suo impegno globale, Fiat dovrà sfornare cinque milioni di automobili. Attualmente in Italia non ne tira fuori che 400mila. I punti di forza del sistema Fiat non sono certo nella Penisola. Chrysler a questo punto sarà la cassa della multinazionale. E’ naturale che su quel marchio verrà puntato tutto il peso del bilancio. E gli stabilimenti italiani dovranno vivere di riflesso, e delle briciole. Non sarà automatico quindi che quel po’ di risorse che affluiranno, al netto di quello che verrà prosciugato dagli oneri da corrispondere al fondo Veba, verranno impiegate nel Bel Paese. Il quadro, quindi, è cambiato. Parte delle risorse promesse per gli investimenti, infatti, serviranno a pagare la “conquista†della vetta. Se vogliamo, quindi, la vendita di Alfa Romeo, difesa strenuamente da Marchionne, è ancora all’ordine del giorno. Questi sono i numeri. Il resto non conta. E a questo punto si apre la questione della separazione tra l’isoletta italiana e l’impero americano di cui Marchionne ha in mano le chiavi. Chi tratterà da questa sponda? Tra i vari passaggi dell’accordo, è stata inserita una rinuncia di Fiat, non certo indolore, al dividendo. Che diranno gli investitori italiani? Che farà Elkann, che si era proposto come il paladino del tricolore? Cosa farà il Governo, soprattutto, che a questo punto dovrà letteralmente strappare di mano le risorse per gli investimenti a Marchionne? L’Italia da centro del sistema è diventata un “problema da risolvereâ€.