Roma – A Roma, il fronte nella lotta al coronavirus passa anche per il reparto di terapia intensiva del Policlinico Umberto I. Ai malati che lo affollano, lontani dai loro parenti impossibilitati alle visite per via del rischio contagio, non resta altro che il personale medico, quei padri, madri o anche giovanissimi, in cui riporre la fiducia di salvezza ma anche la speranza di ottenere un po’ di calore umano con una carezza o una parola di conforto.
“Noi non siamo eroi” dicono in una lettera, gli infermieri e le infermiere della Terapia Intensiva del Policlinico Umberto I di Roma. “Vogliamo essere solo Infermieri, quei professionisti in prima linea che stanno facendo il loro lavoro con un impegno enorme, un rischio immenso e con un macigno sul cuore”.
La lettera ha la valenza prettamente umana, di chi vede soffrire e sa che per aiutare, deve correre rischi enormi. “Quando abbiamo scelto di essere infermieri eravamo consapevoli di dover affrontare il dolore e la sofferenza del prossimo, ma questa guerra contro un nemico invisibile non era prevista, o forse, non era previsto tutto ciò che gli ruota intorno. Noi siamo prima di tutto esseri umani, preoccupati e angosciati da cosa succede nel nostro amato paese e in tutto il mondo: il numero dei morti che cresce, quelle bare allineate trasportate dall’esercito, la disperazione delle famiglia che hanno perso un loro caro, la crisi economica che si prospetta e tanto altro. Con questo ‘bagaglio’ ci alziamo tutte le mattine per andare ad indossare quella divisa, che ormai, è diventata una tuta spaziale da indossare con attenzione, come se dovessimo fare un allunaggio su un pianeta sconosciuto: gel, guanti, calzari, tuta, cuffia, maschera, visiera filtrante e ancora guanti.
Ti controlli, ricontrolli, un po’ con l’affanno, la maschera ti distrugge il naso, il filtrante non ti fa respirare come vorresti, tutto ti stringe, ti dà fastidio. Allora guardi il collega per aver un cenno di assenso ma in realtà cerchi uno sguardo di conforto, da chi sa bene cosa stai provando; cerchi gli occhi amorevoli della caposala, che si commuove a vedere i suoi ragazzi così, pronti per il fronte; ci incoraggia sapendo che siamo forti! Si apre poi la porta, ed eccoci, in terapia intensiva, dove allineati e immobili stanno i nostri pazienti: li guardiamo, li contiamo, per accertarci che siano ancora tutti in vita e, già questo, ci riempie di gioia. Le ore trascorrono tra suoni continui, i macchinari che fanno il loro lavoro, prepariamo e somministriamo farmaci come se fossero pozioni magiche; tutti ci muoviamo con passo deciso, ma attento. Dobbiamo controllare il nostro respiro altrimenti gira la testa, si appanna la maschera e tutto diventa complicato. Guardiamo di continuo l’orologio bianco appeso sulla parete, dobbiamo rispettare gli orari dei farmaci, ma contiamo anche le ore, perché dentro quelle tute, il nostro corpo sembra imprigionato, sudi e tutto ci dà fastidio. Il naso non lo sentiamo più, la pelle del viso brucia, ma non importa, passerà. Ciò che conta è fare del nostro meglio; questi pazienti devono guarire e tornare dai loro cari.
Noi sappiamo di essere importanti per la loro sopravvivenza. Dobbiamo fare tutto il possibile. Siamo una squadra fantastica insieme ai nostri medici, ai nostri colleghi più giovani, assunti per questa emergenza, un po’ impauriti ma bravissimi e insieme ai nostri operatori, che tengono gli ambienti puliti e ci forniscono i materiali indispensabili. Tutti insieme dobbiamo vincere questa battaglia per la vita, questo è il nostro obiettivo. Le ore passano veloci tra instabilità emodinamiche, emogasanalisi, farmaci e strategie; la febbre altissima di uno, il tentativo di riprendere a respirare di un altro, e noi che gioiamo di un valore in miglioramento; quei tubi maledetti che permettono di respirare devono sparire nella speranza che il paziente torni a respirare da solo e ad uscire di qui.
Pensiamo a quella maledetta mascherina, che non si deve spostare, non ci vogliamo infettare, non vogliamo portare virus a casa. Noi serviamo qui, forti e sani. Quando termina il turno, finalmente possiamo svestirci e tornare umani, sudati fino alle mutande, con i visi segnati, arrossati e dolenti, assetati e affamati con la voglia di scappare via, di tornare dalle nostre famiglie che ci aspettano con ansia, con la consapevolezza di aver fatto tanto e di averlo fatto bene e domani, è un altro giorno, come diceva Rossella Ohara. Noi –conclude la lettera- non siamo eroi, siamo infermieri”.