Dalla Turchia al Brasile, é scontro tra la gente e chi prende a calci i diritti del popolo
22 Giugno 2013Di Max Latempa
Le proteste di piazza che stanno sconvolgendo in questi giorni il Brasile hanno sorpreso in molti.
Negli ultimi anni si è sempre parlato di un paese in forte crescita, di una potenza economica emergente, di una realtà con enormi potenzialità e prospettive per tutti.
Il fatto che fosse stato in grado di ottenere l’organizzazione dei mondiali di calcio e delle olimpiadi, a soli due anni di distanza gli uni dalle altre, sembrava avvalorare questa tesi.
In verità le risorse effettivamente esistono in questo enorme paese, il più grande dell’america Latina, e la produzione di petrolio, sempre in aumento, lo dimostra. Ma probabilmente la popolazione continua a vedere ben poco di questa ricchezza che risulta ad appannaggio di poche persone, sempre le stesse, e delle società nazionali e multinazionali che detengono i diritti.
Il popolo ha assistito alla costruzione di grattacieli, di interi quartieri finanziari, e sente di miliardi di dollari che volteggiano sulle proprie teste ma, evidentemente, non ha visto mutare di molto la propria condizione sociale.
Il Brasile ha dato il via ad un faraonico programma di infrastrutture per organizzare mondiali ed olimpiadi ma non ha ancora risolto il problema più grave: 60 milioni di poveri non hanno scuole ed ospedali e non partecipano al banchetto.
La gente è scesa in piazza in concomitanza alle partite della Confederations Cup, denunciando la corruzione che dilaga nella politica, le spese faraoniche fatte a sproposito per far lievitare il budget, l’ aumento dei prezzi dei trasporti deciso dai comuni per coprire i costi degli appalti.
Nel paese del Calcio nessuno ha ancora capito perché mai sia stato demolito il mitico stadio Maracanà (200 mila posti) per far spazio ad un anonimo altro stadio da 78mila posti simile a quello di Kiev o Varsavia, cioè impersonale. Meno posti, biglietti più salati, praticamente tagliati fuori dallo sport nazionale i poveri a cui invece rimaneva solo il Calcio. Spalti ridotti ad una scenografia tipo playstation con tanti saluti a quella che era la torcida brasileira.
La maggior parte dei manifestanti protesta indossando la maglia della propria squadra di club o quella della nazionale. Perché nel paese del Calcio non si protesta contro il Calcio ma contro il nuovo calcio, quello degli affari del presidente della FIFA Sepp Blatter che ha asfaltato i valori del football antico piegandoli a quelli della mentalità globalizzata.
Imponenti folle oceaniche hanno tenuto in scacco Rio e San Paolo ma la verità è che sono a rischio i mondiali e le olimpiadi. Perché questa volta la gente sa quello che vuole e sa che dover annullare eventi così importanti sarebbe catastrofico per i politici. Infatti sono già stati revocati gli aumenti dei biglietti dei trasporti e la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff si è affrettata a dire che il governo ascolterà le proteste dei manifestanti. Ma non è bastato.
La gente ora sa di avere il coltello dalla parte del manico.
La folla chiede giustizia ed uguaglianza sociale. Chissà se davvero andrà fino in fondo.
Nel frattempo la globalizzazione ha però contagiato anche i manifestanti e si sta rivelando un prezioso alleato di chi protesta contro gli apparati che l’hanno voluta. In Brasile molti protestano con la bandiera della Turchia in mano, come per lanciare un ponte verso quelle altre migliaia di persone che stanno lottando ad Istanbul contro gli sprechi del governo Erdogan. Molti indossano la maschera bianca di Anonymous del film “V per vendetta.â€
Forse dal mondo del Calcio è partita la rivolta mondiale che molti aspettano per mettere fine alle ingiustizie sociali della Terra.
C’è poi un altro paese nel mondo che ama il Calcio alla follia e che potrebbe esplodere da un momento all’ altro.
Forse, per paura di questo, Mario Monti ritirò la candidatura dell’Italia alle Olimpiadi del 2020.